Mon Sahara

Ouarzazat (door of the desert) to Merzouga, Morocco.

DUNE

La sala dell’ostello pare improvvisamente essere quella notte il posto dove le cose passano, dove, forse, si lasciano passare… e lasciar passare, e rimanere…

I due giovani Sahraoui ballano, le braccia protese, una castagnetta in di metallo in ogni mano, nel tripudio delle Derbouka, lo strimpellare secco della chitarra, le pupille figlie del firmamento, fisse e fiere, la pelle tesa come quelle dei loro strumenti.

I loro lunghi abiti bianchi si ergono e si rompono, si voltano.

I corpi e i suoni soffrono insieme mentre la loro anima e i loro sensi soffiano e cominciano a vedere la luce.

Ostello della stella, stella dell’ostello, uno veglia sotto l’altra, l’altra vegliando su di lui, e luna tra i due, oppure luna quaggiù intorno ai quattro muri.

Camminando su quella sabbia, si è già lassù. Ogni granello dell’arena in cui non c’è vittima, che sublima, che sè desiderando l’estinzione, risiedendo deserto, evoca un astro.

Camminando su quella sabbia, si cammina su braci e sotto braci d’oro. Come un serpente incantato, qui nel silenzio, si cammina, si danza. Mektub. E’ scritto sulla sabbia, è grido nelle stelle, subito cancellato dal vento, dal levante.

Il giorno, I’azzurro del cielo e del popolo nomade.

La notte nera dell’ inchiostro con l’oro del silenzio per leggerci l’Azzardo incendiato negli astri a occhio nudo.

Il giorno rischiara tutto, ma la notte illumina. Nell’ombra della terra, l’universo si rivela, il tacere solitario è scuro ma solare, laddove il verbo si avvera è il sogno. La notte permette di vedere più lontano.

Come il veggente volta il suo occhio verso le sue tenebre, essendo la loro redenzione, tale una madre, la Terra nella sua orbita gira, e ci tuffa nella notte baciando le nostre palpebre e la nostra fronte, chiude i nostri occhi e ci apre i nostri cieli, gli antichi oceani, tutti suoi.

Così il sahara, no man o nomad’s land, è anche il mad’s land del senza e dell’essenza. Nell’assenza di tutto sta tutta la presenza. Insieme fondo e tetto del mondo.

CAMMELLI NELLA TEMPESTA

Talvolta, lo scirocco si mette a tirare. Allora non sei più sicuro di niente.

Solo i dromedari possono star fuori giorni e giorni ma sembra che anche loro siano sul punto di scomparire, cancellati dallo schermo dell’illusione che nel deserto non può resistere troppo a lungo a meno che non si trasformi in pazzia completa, se ti aggrappi a quello che vuole volar via col vento.

SEDIA ROVESCIATA

La tua mente, continuamente assillata come una fortezza fragile comincia a dimenticare, a perdere i punti di riferimento. Il deserto è assoluto, ma tu ti metti a relativizzare.

Non sei più quello, e speri di non esserlo mai più. Mai più seduto ad insegnare qualcosa o ad imparare qualcosa. All’epoca, ero professore in un paesello dell’Ardèche.

Era una settimana prima delle vacanze, a febbraio. Un sabato sera, ho sentito la chiamata del deserto, perché nulla chiama più forte del silenzio, nulla attrae più del vuoto, e ti rapiscono a migliaia di chilometri, ovunque tu sia.

E sono partito. Ho riempito appena un quarto dello zaino, sono sceso alla città più vicina e sono andato direttamente nel deserto marocchino, dopo l’Atlas, dopo Erfoud alle dune di Merzouga. Molto più tardi mostrando questa foto a mio fratello, mi ha fatto notare che questa era la mia sedia di professore, abbandonata, rovesciata.

Gli uomini camminano e le montagne stanno ferme. E’ falso.

Nel deserto ancora di più: la mattina esci dall’ostello e non riconosci più Io scenario: le dune si sono mosse, trasformate, e finalmente ti rendi conto che l’unica cosa che non cambia è il sole che è come un occhio sorridente o spietato che lascia tutto nascere, crescere e morire aspettando che finalmente questo tutto alzi gli occhi per davvero e capisca e non stacchi più gli occhi di lui, attraverso il vento, attraverso le nuvole, attraverso la notte e anche attraverso la pioggia che cade qualche volta.

Quel che fa la bellezza dei deserto e L’armonia.

Non c’è un sospetto di volgarità, di troppo, di spostato, ma purtroppo la gente che ci viene ne porta spesso tanto…che non rimane un secondo dopo la sua partenza.

Ci sono i tuareg che camminano sulla sabbia come su un oceano e come i marinai scrutano le stelle per trovare la via, e questa via è iscritta nei tappeti senza età.

Popolo del cielo tra sabbia e stelle, sospeso tra la terra e il sole sui dromedari, popolo del cielo perché ha il tempo, e chi ha il tempo, il tempo non lo ha, o si becca solo il corpo come la vecchia pelle di un serpente che se ne va ridendo.

C’è il colore delle sabbia che tinge tutto di una polvere tra l’oro e cenere e che fa sembrare tutto più vivo, più prezioso, più segreto, insieme morto, resuscitato ed eterno.